lunedì 30 maggio 2016

OLIO DI PALMA: LA BUFERA NON E’ PASSATA…

Dallo scandalo dello scorso anno sulla pericolosità legata al protratto consumo di alimenti a base di olio di palma, molte industrie alimentari sono corse ai ripari e, per evitare di perdere i profitti, hanno cambiato la loro politica aziendale, eliminando il “famigerato“ olio e sostituendolo nelle varie ricette con olio di oliva, girasole, soia e colza.
I primi ad aggiudicarsi il titolo dei più virtuosi sono stati i marchi: Misura, Esselunga, Plasmon, Alce Nera, Gentilini e Coop, seguiti poi da Mulino Bianco, Granoro e Paluani e in fine da Le Tre Marie, Galbusera e Colussi.
Alcuni (come Misura) hanno deciso di eliminare completamente l’olio di palma da ogni linea di produzione; altri hanno invece creato una linea parallela di prodotti speciali privi di olio di palma per crackers, fette biscottate, biscotti e merendine.

I PARERI DEGLI ORGANI COMPETENTI

C’è da chiedersi se tutto questo sia stato davvero necessario ai fini di preservare la salute del cittadino o se non si sia stato trattato che di una campagna allarmistica.

- Le linee guida americane del  Palm Oil Innovation Group, per ridurre i danni alla salute della popolazione statunitense, determinati da un eccessivo consumo di grassi saturi nella dieta di tutti i giorni, raccomanda che l’impiego di grassi saturi provenienti da olio di palma, da tutti gli oli tropicali, oltre che da burro, latte intero e carni non etichettate come magre, non superi il 10% dell’apporto calorico quotidiano.

- L'Istituto Superiore di Sanità in Italia è però di parere più moderato stabilendo che “l'olio di palma non fa più male di tanti altri grassi”. Questo olio estremamente versatile dal punto di vista industriale, data la sua consistenza che lo rende un valido sostituto del burro, contiene in effetti circa il 50% di acidi grassi saturi, quelli cioè pericolosi per la salute. Nonostante ciò, l'olio di palma presenta un contenuto inferiore di grassi saturi rispetto al burro e agli altri grassi vegetali, come l'olio di cocco e il burro di cacao. La raccomandazione data dall’Istituto Superiore di Sanità sta quindi nel prestare attenzione a tutte le fonti di acidi grassi saturi, compresi alimenti come il latte e derivati, le uova e la carne, in quanto è l’eccessivo consumo di acidi grassi saturi a determinare l'aumento delle malattie cardiovascolari. L’olio di palma infatti rappresenta una fonte di acidi grassi saturi, con effetti del tutto analoghi agli altri grassi a composizione simile, sul rischio cardiovascolare. Ecco spiegato come mai i principali organismi sanitari nazionali e internazionali consigliano di mantenere sotto il 10% delle calorie totali l'assunzione di acidi grassi saturi. L'Istituto Superiore di Sanità ha stimato che in media un adulto consuma circa 27 grammi di acidi grassi saturi al giorno, di cui solo 2,5 e 4,7 grammi deriverebbero dall'olio di palma; nei bambini però si arriva fino ai 7,7 grammi al giorno. Ciò ad avvalorare come un uso corretto, fino dalla tenera età, di fonti di grassi saturi, senza arrivare all’abuso, risulti fondamentale a garantire il buono stato di salute.


- Di ben altro parere è Efsa (European Food Safety Authority) che recentemente (03.05.16) ha concluso il dibattito sull’olio di palma decretandone la tossicità a causa della presenza di sostanze cancerogene, in particolar modo legate alle molecole di 3-MCPD (3-monocloropropandiolo), 2-MCPD (2-monocloropropandiolo) e GE (glicidil esteri degli acidi grassi). Tali sostanze si formano durante i processi di lavorazione industriale degli alimenti, soprattutto quando gli oli vegetali vengono raffinati ad alte temperature (circa 200 gradi). Le relazioni scientifiche provenienti da CONTAM (gruppo di esperti scientifici dell'EFSA sui contaminanti nella catena alimentare) hanno evidenziato come il glicidolo (composto precursore dei GE) sia genotossico e cancerogeno e che l’esposizione alle sostanze che lo contengono, possa destare seria preoccupazione, soprattutto in lattanti e bambini, senza escludere un potenziale problema di salute per tutte le fasce d’età.

- A seguito di tale presa di posizione Aidepi – Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane – che in passato aveva investito molto in termini di pubblicità al fine di rassicurare il consumatore sull’utilizzo di olio di palma, ha annunciato di voler operare delle scelte mirate al fine di garantire la massima tutela del cittadino.

AMBIENTE

Oltre alla spinosa questione legata alla salubrità dei prodotti a base di olio di palma e le sue ripercussioni sulla salute dei cittadini; resta ad oggi ancora da redimere quella legata alla salvaguardia ambientale che necessita in uguale misura di una regolamentazione precisa.
La produzione dell’olio di palma si concentra principalmente in Malesia e Indonesia, in cui lo sfruttamento massivo delle colture, ha portato alla deforestazione con conseguente perdita, nel tempo, della biodiversità delle specie vegetali.
Le multinazionali che si insediano in quei luoghi, si appropriano dei nuovi terreni, spesso senza che la popolazione locale possa rivendicarne alcun diritto; mettendo di fatto in ginocchio gli abitanti che vedevano nelle piantagioni una fonte di sostentamento.
La coltivazione massiva di olio di palma quindi recherebbe non solo gravi disagi alle già povere popolazioni autoctone, ma anche alla flora e alla fauna locali.


martedì 24 maggio 2016

INTOLLERANZA AL LIEVITO?ADESSO NON E’ PIU’ UN PROBLEMA


Il lievito viene impiegato in cucina per aumentare il volume degli impasti, che così diventano morbidi e soffici. Ciò che sta alla base del fenomeno della lievitazione è la produzione di anidride carbonica, con conseguente formazione di bolle all’interno dell’impasto, responsabili del suo rigonfiamento. 

QUANTI TIPI DI LIEVITO ESISTONO?
I lieviti si possono suddividere in due grandi categorie: quelli naturali e quelli chimici; il cui utilizzo si differenzia in base al momento in cui vogliamo avvenga la lievitazione. Se usiamo in lievito naturale, il processo chimico avverrà prima della cottura; viceversa se impieghiamo in lievito di tipo chimico la lievitazione avverrà proprio in cottura grazie all’innesco dato dal calore.

LIEVITI NATURALI
Con questo termine vengono identificati il lievito di birra e il lievito madre, entrambi capaci di determinare una lievitazione microbiologica. I lieviti sono microrganismi viventi che appartengono al regno dei funghi; restano vivi ma attenuati (dormienti) fino a che si trovano in un ambiente refrigerato, come quello del frigo, a temperatura ambiente si riattivano e cominciano a riprodursi.
Notoriamente i funghi utilizzano come substrato nutritivo gli zuccheri e traggono energia dalla fermentazione alcolica: processo chimico che consente di liberare l'energia contenuta nello zucchero, per renderla utilizzabile.

Lievito di birra
Composto da funghi che fermentando, trasformano gli zuccheri presenti nel composto in anidride carbonica e alcol. Gli zuccheri si possono trovare o direttamente nella farina o essere aggiunti ad essa ( es miele e/o malto). L’alcol in fase di cottura evapora, l’anidride carbonica invece resta imprigionata nel reticolo glutinico, promuovendo il rigonfiamento dell’impasto.

Il lievito di birra si può trovare nelle seguenti formule:

- Fresco (solitamente venduto in panetti da 25 g): si consiglia prima di procedere all’utilizzo di sbriciolarlo e scioglierlo in acqua tiepida che verrà poi unita alla farina per la preparazione del composto desiderato.
- Secco sotto forma di palline: cellule di lievito inattivo formano una sorta di involucro attorno a quelle ancora vive. Anche in questo caso si consiglia di procedere all’attivazione del prodotto in acqua tiepida e zucchero, fino a che non si assiste alla formazione di schiuma, indice che il lievito è pronto per l’uso.
- Secco istantaneo: microgranuli che vanno stemperati in acqua tiepida e uniti direttamente all’impasto.

Lievito Madre
Viene attribuito questa definizione ad un impasto composto da acqua e farina a cui sono stati aggiunti saccaromiceti e batteri lattici, in grado di innescare la fermentazione.
A differenza del lievito di birra, il lievito madre contiene diverse specie di batteri in grado di garantire una maggior crescita del prodotto, oltre che una migliore conservabilità e digeribilità.

LIEVITI CHIMICI

Si tratta di sostanze chimiche che, in presenza di calore reagiscono tra loro inducendo la fermentazione. I lieviti chimici sono i così detti “lieviti istantanei”, non prevedono la presenza di microrganismi ma unicamente l’azione di una sostanza acida e una alcalina; il calore della cottura promuove la stimolazione di queste sostanze che liberano anidride carbonica, responsabile della formazione delle bolle.
In questo caso, l’impasto non deve risposare, ma una volta che tutti gli ingredienti sono stati uniti, si può passare direttamente alla cottura.
Durante la cottura l’acqua presente nell’impasto passa allo stato di vapore e si va a disporre all’interno delle bolle di anidride carbonica, determinando un aumento nel volume dell’impasto.

Fra i lieviti di tipo chimico, rientrano il bicarbonato di sodio e il lievito chimico (il comune lievito per dolci).

- Il bicarbonato di sodio sfrutta la presenza di sostanze acide presenti nell’alimento o nell’impasto (esempio: yogurt, latticello, cioccolato, cacao non trattato, melassa, zucchero integrale, succhi di frutta, ecc...) per produrre anidride carbonica. Molti alimenti sono naturalmente acidi e quindi possono reagire direttamente con il bicarbonato e formare così le bolle di anidride carbonica.

- Il lievito chimico è dato da un mix di componenti, che in presenza di umidità e di calore, sono in grado di liberare anidride carbonica. Solitamente la miscela è così composta: una sostanza basica (il bicarbonato o qualche suo derivato), una componente acida e una sostanza neutralizzante (solitamente amidi). La parte basica serve a liberare anidride carbonica; la parte acida invece accellera la liberazione di quest’ultima e di eliminare il retrogusto amaro assunto dagli agenti lievitanti dopo la cottura; la parte amidacea serva invece ad impedire un innesco precoce del processo a causa dell’ umidità dell’aria.
Di seguito alcuni esempi di lieviti chimici:

Cremor Tartaro
Si tratta di un sale di potassio dell’acido tartarico estratto dall’uva o dal tamarindo, spesso impiegato in associazione al bicarbonato di sodio che ne aumenta il poterebbe lievitante. Questo rappresenta uno dei primi lieviti chimici utilizzati, capace di donare morbidezza agli impasti, adatto anche agli intolleranti al lievito e per coloro che decidono di intraprendere una dieta vegana o vegetariana.

Baking Powder
Polvere lievitante del tutto simile per l’aspetto al bicarbonato, contenente degli agenti lievitanti che danno origine alla produzione di anidride carbonica in presenza di calore.
Questo tipo di lievito dà ottimi risultati in termini di lievitazione se abbinato al bicarbonato di sodio, in quanto capace di attivare le molecole presenti nel preparato chimico.
E’ possibile realizzare baking powder anche “artigianalmene” a casa: basta unire del bicarbonato di sodio con ugual proporzione di cremor tartaro e mezza porzione di maizena ( amido di mais) in grado di assorbire l’eccesso di umidità presente nell’aria.

Bicarbonato d’ammonio
Si tratta di un sale acido dell’ammoniaca e dell’acido carbonico; quando riscaldato l’ammonio bicarbonato si decompone in CO2 (anidride carbonica) e ammoniaca. L’ammoniaca evapora e non altera il sapore dei biscotti mentre l’ anidride carbonica che si produce, rende l’impasto più fragrante.
Viene impiegato soprattutto per la preparazione di biscotti secchi, frollini ed in alcuni tipi di crackers, o comunque per prodotti a basso contenuto di umidità. L’eccesso di acqua presente all’interno del prodotto, potrebbe trattenere ammoniaca e rendere il prodotto non edibile.

INTOLLERANZA AL LIEVITO

L’intolleranza al lievito, un tempo quasi sconosciuta, adesso sta diventando sempre più comune fra bambini e adulti.

Purtroppo il lievito si trova in molti alimenti di uso comune quali: pane, pizza e dolci. Nei soggetti intolleranti, la sua assunzione è legata a fenomeni di dismicrobismo intestinale, e spesso funge da innesco per una serie di problematiche fisiologiche quali: maggiore suscettibilità a contrarre infezioni, allergie, malattie autoimmuni, disturbi dell’alvo (diarrea, stitichezza, meteorismo, flatulenza, crampi addominali ecc.), infezioni genitali e urinarie, predisposizione ai tumori del colon-retto, oltre che emicrania e debolezza.

Ecco quindi una serie di alternative valide al lievito per coloro che non tollerano questo prodotto alimentare.

Cremor tartaro
E’ un sale acido che funziona da agente lievitante, in grado di rendere gli impasti soffici in modo naturale. Si può acquistare a peso o in bustine in farmacia o nei negozi specializzati; per procedere al suo utilizzo, in fase di preparazione, è necessario aggiungervi bicarbonato di sodio e acqua frizzante, per promuovere la liberazione di anidride carbonica, responsabile della formazione delle tipiche bolle che in cottura e fanno crescere (lievitare) l’alimento.
Questo sostituto del lievito, viene largamente impiegato non solo da coloro che manifestano intolleranze al lievito, ma anche da chi pratica diete vegetariane e vegane in quanto, a differenza del lievito chimico, non contiene stabilizzanti di origine animale (solitamente l’ E470a, che può provenire da bovini o da suini). 

Aceto e bicarbonato
A seconda del tipo di alimento che si desidera preparare, si può utilizzare o l’aceto di mele o quello di vino bianco.
Quello di mele, essendo molto delicato, è consigliabile per gli impasti dolci; quello di vino bianco invece si addice maggiormente ai preparati salati.
Anche in questo caso l’innesco della reazione chimica che sta alla base del processo di lievitazione viene promossa dall’aggiunta di bicarbonato.

Succo di limone e bicarbonato
Anche questo binomio è da ritenersi vincente; basta mescolare circa 70 ml di succo di limone con circa 10 g di bicarbonato per ottenere un valido sostituto del lievito capace fra l’altro di donare alla pietanza il classico aroma agrumato. Purtroppo la vitamina C apportata con il limone si viene completamente a perdere in fase di cottura.