giovedì 19 marzo 2015

Una nuova fonte di omega 3? Prova l’olio di Krill


Per Krill si intendono piccoli invertebrati marini appartenenti alla specie Euphasia che vanno a costituire lo zooplancton antartico, rappresentando la maggior fonte alimentare di balene, pesce azzurro e uccelli acquatici presenti nelle zone polari.
La sopravvivenza di questi piccoli crostacei a climi tanto rigidi è permessa dalla presenza di una membrana biologica costituita essenzialmente di fosfolipidi ricchi di acidi grassi polinsaturi a catena lunga (PUFA).
L’olio estratto da questi invertebrati è di colore rosso scuro, molto viscoso e ricchi di PUFA della serie omega 3 come EPA e DHA.





Recentemente è stato dimostrato che l’olio di Krill possiede delle virtuose proprietà ipolipidemizzanti in grado di contrastare in modo più efficace il rischio cardiovascolare rispetto agli altri oli di pesce. Esso infatti contiene una percentuale totale di EPA e DHA simile a quella presente negli oli di pesce (circa il 30%). Va detto che in proporzione EPA risulta essere più abbondante di DHA nell’olio di Krill, mentre DHA risulta essere maggiormente presente negli oli di pesce. 
Ciò che rende nell’olio di Krill più virtuoso degli oli di pesce è che in quest’ultimo, EPA e DHA si trovane esterificati sotto forma di fosfolipidi e non trigliceridi, come invece accade negli oli di pesce rendendoli quindi più assorbibili a livello intestinale.
In particolare è emerso che un introito di circa 4g/die di PUFA provenienti da olio di Krill, sono in grado di abbassare i livelli ematici relativi ai trigliceridi di circa il 25-30% seppure va sottolineato che tale riduzione è dose-dipendente quindi strettamente legata ad un’assunzione regolare di questo tipo particolare di olio.
Il meccanismo che sta alla base dell’azione ipolipidemizzante esercitata dall’olio di Krill, che getterebbe le basi per ipotizzare terapie di prevenzione contro obesità, dislipidemie e patologie cardiovascolari, sembrerebbe risiedere in una riduzione della sintesi epatica di acidi grassi, trigliceridi, VLDL, oltre che in una regolazione sulla secrezione di trigliceridi.

È importante tenere presente che EPA e DHA possono essere sintetizzati dall’organismo umano solamente in piccole quantità a partire dall’acido alpha linolenico che a sua volta deve essere introdotto con l’alimentazione essendo, come l’acido linolenico, un acido grasso essenziale (EFA).
EPA e DHA sono in grado di influenzare positivamente la funzionalità piastrinica, la pressione arteriosa e, in quanto precursori degli eicosanoidi,esercitano attività anti infiammatoria. Questo virtuoso alimento è anche ricco di molecole antiossidanti come la vitamina A ed E.
Per queste preziose virtù se ne consiglia l’assunzione giornaliera di circa500-1000mg.
Da esperimenti condotti su soggetti di ambo i sessi in sovrappeso, obesi e affetti da dislipidemie, hanno dimostrato che l’olio di Krill è in grado di migliorare il profilo lipidico di questi soggetti in modo più efficace dell’olio di pesce. Il meccanismo molecolare mediante il quale viene esercitata tale azione ipolipidemizzante, parrebbe essere riconducibile ad una modulazione del metabolismo lipidico epatico. L’olio di Krill inibisce infatti la sintesi de novo degli acidi grassi, agendo soprattutto sull’attivazione e sull’espressione delle proteine coinvolte in questo percorso metabolico come il carrier mitocondriale del citrato (CIC) e gli enzimi lipogenici Acetil-CoA carbossilasi (ACC) e acido grasso sintasi (FAS).



Inoltre dallo studio su citato è emerso che la supplementazione con olio di Krill, era in grado di portare ad una riduzione della glicemia a digiuno ed un aumento dei livelli di adiponectina ( citochina ad attività anti-aterogeniche e anti-infiammatorie.
Inoltre l’aggiunta di olio di Krill anche del 2,5% ad una dieta iperlipidica, sembra essere in grado di prevenire in modo efficace l’aumento di peso e l’accumulo di trigliceridi e colesterolo nel fegato e questo non solo per una diretta inibizione della lipossigenasi, ma anche per la stimolazione dell’ossidazione degli acidi grassi.

venerdì 13 marzo 2015

Cosa si sa sulla sideremia?


La sideremia indica i valori di ferro ematico In base ai parametri di riferimento (Uomo: 75-160 microgrammi/decilitro Donna: 60-150 microgrammi/decilitro ), si comincia a parlare di eccesso di ferro ematico quando il ferro accumulato supera i 5 grammi circa.
Molteplici sono le cause scatenanti la condizione di sideremia alta: malattie genetiche (talassemie, emocromatosi), trasfusioni di sangue, assunzione di alcol per lungo periodo, epatite, assunzione prolungata di pillola contraccettiva e di alcuni farmaci (es: metildopa, cloramfenicolo).
Una valutazione mirata da parte del medico curante, volta all’individuazione della possibile causa scatenante, è essenziale per contrastare tale stato patologico e arrivare ad una rapida e tempestiva cura. 
I sintomi associati ad un eccesso di ferro, contrariamente a quanto si possa pensare, sono: stanchezza, depressione, irritabilità, , mal di testa, le vertigini, i crampi, la perdita di peso, i dolori articolari, sbalzi d’umore; nell’uomo si assiste a ipogonadismo, nelle donne può associarsi ad una disfunzioni della tiroide e ad un’alterazione del ciclo mestruale.
Una delle manifestazioni più pericolose associate all’eccesso di ferro è l'emocromatosi: malattia che causa danni a fegato, pancreas ed cuore; ecco spiegata una sintomatologia caratterizzata da affaticamento cronico, dolori articolari, aritmie o disturbi cardiaci, cambiamento del colore della pelle (bronzo, grigio cenere, verdastro), ciclo mestruale irregolare o assente, osteoporosi, impotenza o sterilità, caduta dei capelli, depressione, fino ad arrivare a patologie più gravi quali Parkinson, infarto e cancro. 
L’emocromatosi non solo può rappresentare lo stato patologico conseguente all’elevata concentrazione di ferro nel sangue, ma può anche rappresentare la causa di sideremia alta. Si tratta infatti di una malattia, solitamente di tipo ereditario, caratterizzata proprio dall’accumulo eccessivo di ferro nei tessuti a causa di un difetto nei meccanismi di regolazione del metabolismo del minerale relativo al gene HFE, responsabile di regolare l’assorbimento del ferro assunto con gli alimenti. 
In condizioni fisiologiche l’uomo assorbe circa l'8-10% del ferro dai cibi, quindi è molto comune che si manifesti una carenza di ferro piuttosto che il contrario; chi è affetto da emocromatosi invece, è in grado di assorbire quattro volte tale percentuale dalla dieta quotidiana. Il rischio per questi soggetti è quello di arrivare ad una condizione di “avvelenamento da ferro” determinato dal deposito di questo nei vari organi. E’ possibile effettuare una diagnosi di emocromatosi sottoponendosi ad una semplice analisi del sangue mirata alla ricerca dei valori di: ferritina, sideremia e transferrina per una diagnosi della malattia. Per questo tipo di patologia l’unico rimedio ad oggi conosciuto è il salasso da intendere come donazione di sangue volontaria (dai 200 ai 400 cc a settimana); ovviamente è opportuno eliminare o ridurre dalla dieta tutti quegli alimenti notoriamente ricchi di ferro.

Eccesso di ferro e cattiva alimentazione
Il ferro è presente in molti alimenti, particolarmente nella carne rossa, soprattutto in fegato di bovino e frattaglie oltre che nelle carni di cavallo, cozze, ostriche, spigole, legumi secchi, frutta secca in guscio e frutta secca come datteri, albicocche, prugne, ma anche nel pane e cereali e in tutti quegli alimenti fortificati ( es cereali da colazione) ovvero alimenti che per loro natura non presenterebbero elevate concentrazioni di questo minerale, ma a cui viene aggiunto industrialmente.
Una volta assorbito dall’organismo, il ferro diventa parte dell’emoglobina, una molecola che lega l’ossigeno e lo porta ai tessuti. Le persone sane assorbono circa il 10% del ferro alimentare; nello specifico, l'intestino è in grado di assorbire tra il 2 e il 10% del ferro fornito dai vegetali e tra il 10 e il 35% di quello contenuto nelle fonti animali (ferro eme). Chi manifesta sideremia alta assorbe troppo ferro, tanto che l’organismo non riesce ad eliminarne l’eccesso, provocando così danni ai tessuti e agli organi. Per ottenere un apporto adeguato di ferro e diminuire il rischio di malattie, si può seguire una dieta sana che comprenda frutta, verdura e cereali integrali, limitando il consumo di carne (soprattutto carne rossa), preferendo alimenti freschi a quelli che hanno subito molteplici manipolazioni da parte dell’industria alimentare. 


Come contrastare l’eccesso di ferro con gli alimenti 
E’ fondamentale scegliere alimenti che tendono a contrastare la quantità di ferro assorbita, tra le sostanze utili ci sono:
· Calcio: minerale essenziale che inibisce l’assorbimento di ferro. Si trova in latte, yogurt, formaggio, sardine, verdure a foglia verde e crucifere (rucola, cavolo riccio, cime di rapa, cavolo cappuccio, broccoli), mandorle, legumi, tofu, erbe e aromi (maggiorana, timo, salvia, origano, menta, rosmarino, semi di finocchio, alloro), semi di papavero, di sesamo e semi di chia.
· Ossalati soprattutto presenti in spinaci, cavoli verdi, barbabietole, noci, tè, crusca, fragole cioccolato, crusca, rabarbaro, origano, basilico e prezzemolo; diminuiscono l’assorbimento del ferro non proveniente dalla carne.
· Polifenoli sono i principali inibitori dell’assorbimento del ferro, tra i polifenoli o composti fenolici ricordiamo l’acido clorogenico che si trova nel cacao, nel caffè e in alcune erbe. L’acido fenolico presente nelle mele, nella menta e in alcune tisane, e i tannini presenti nel tè nero, nel caffè, nel cacao, nelle spezie, nelle noci e nella frutta come le mele, le more, i lamponi e i mirtilli sono altresì in grado di inibire l’assorbimento del ferro.
· Uova grazie al contenuto di fosvitina: una fosfoproteina in grado di legare il ferro.

· Fitati: composto presenti nelle proteine della soia e nelle fibre. Anche le minime quantità di fitato (che da solo equivale al 5% circa delle farine di cereali integrali) presenta un forte effetto inibitorio sulla biodisponibilità del ferro. Il fitato si trova nelle noci, nelle mandorle, nel sesamo, nei fagioli, nelle lenticchie e nei piselli secchi, ma anche nei cereali e nelle farine integrali.